I principi enunciati dal codice dei contratti. Le insidie connesse al “risultato”.
Molta attenzione ed apprezzamento suscita per gran parte dei primi interpreti lo sforzo del codice dei contratti di orientare l’azione amministrativa, con l’enunciazione dei principi indicati nei primi articoli del d.lgs 36/2023.
In chiave critica, tuttavia, non si può fare a meno di notare la scarsa innovatività di detti principi: essi sono sempre stati una chiave obbligatoria per la gestione, nonché un riferimento per l’interpretazione giurisprudenziale, visto che da un lato sono tutti disaggregazione dei fondamentali principi di buon andamento ed imparzialità, posti dall’articolo 97 della Costituzione e, dall’altro, in gran parte fissati dal Trattato UE e dalle direttive appalti.
L’enunciazione di tali principi, al di là del pregio “dialettico” rinvenibile nella loro redazione e definizione, non è ben chiaro a quali fini sia destinata e, soprattutto, a chi sia rivolta.
In assenza di un’evidente capacità di innovare l’ordinamento giuridico, già da tempo pervaso dalla gran parte dei principi disciplinati dal codice, che già in precedenza se non espressamente enunciati erano comunque perfettamente desumibile, lo scopo finale della loro fissazione appare oscuro.
E’ pur vero che il legislatore è assolutamente libero nei fini e non deve certo attenersi a nessuna particolare motivazione da porre alla base dei propri precetti.
Altrettanto vero è che la norma mostra capacità ed efficacia a condizione che i precetti o principi da essa disciplinati possano appunto incidere nell’ordinamento; altrimenti, si resta nell’alveo della retorica, per quanto interessante e profonda.
E’ vero che si tratta di principi generali, dunque operanti nei confronti di tutti, ma, si ribadisce, è davvero complesso comprendere chi ne sia il soggetto in via principale destinatario della loro applicazione.
Dunque, torna la domanda: con “chi” parla il legislatore, nel definire i principi enunciati? Con le pubbliche amministrazioni? Con gli operatori economici? Con i giudici?
In effetti, se l’ultima possibile risposte fosse quella corretta, la rilevanza dei principi risulterebbe fortemente impattante.
Si pensi al principio del “risultato”. E’ lo stesso legislatore che nel disciplinarlo nega implicitamente la sua portata innovativa, visto che nel comma 3 dell’articolo 1 del codice chiarisce: “Il principio del risultato costituisce attuazione, nel settore dei contratti pubblici, del principio del buon andamento”. E anche la circostanza che il risultato sia, immediatamente dopo, considerato attuativo “dei correlati principi di efficienza, efficacia ed economicità” non ne aumenta la portata innovativa, visto che detti ulteriori principi attuativi sono enunciati da tempo dalla legge 241/1990 e dalla giurisprudenza.
Ma, quale giudice può considerarsi direttamente coinvolto dalla previsione normativa di tale principio? Non certo quello penale, tenuto ad applicare tutt’altro apparato normativo. Non certo quello civile, posto che il perseguimento di un risultato non può certo mai giustificare l’eventuale lesione di diritti soggettivi impedendo il risarcimento dei danni connessi alla responsabilità extracontrattuale, per altro prevista proprio allo scopo di evitare che una giustificazione “unilaterale” dell’agire di una parte per un proprio egoistico interesse al risultato, possa compromettere oltre misura la posizione dell’altra parte.
Nemmeno il giudice amministrativo pare possa essere più di tanto coinvolto dall’enunciazione di tale interesse. Infatti, la cognizione del “risultato” non può che sconfinare verso valutazioni di merito. Sarà concesso al giudice amministrativo valutare l’opportunità di una programmazione, della scelta di un sistema di affidamento invece di un altro, di un cronoprogramma di un progetto, sostituendosi all’amministrazione agente o di controllo nella valutazione del risultato da conseguire? E’ da dubitarne fortemente.
Forse, allora, destinataria principale dell’enunciazione di detto principio è la magistratura contabile? Il comma 4 dell’articolo 1 sembra in effetti fornire basi ad una risposta positiva a questa domanda: “Il principio del risultato costituisce criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto, nonché per:
a) valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti;
b) attribuire gli incentivi secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva”.
L’esercizio del potere discrezionale, in quanto legato a questioni di merito e laddove non connotato da palesi vizi logici e tecnici sfugge alla cognizione dei giudici amministrativi. Ma è elemento rilevante per la valutazione della responsabilità amministrativa da parte della Corte dei conti, che considera non solo l’illegittimità dell’agire, ma anche e soprattutto la lesione dei principi di corretta gestione delle finanze pubbliche come fonte di responsabilità, sebbene la gestione si possa giustificare col perseguimento di un “risultato” determinato.
La norma pare affermare, tuttavia, che proprio l’aver agito allo scopo di conseguire quel risultato dovrebbe essere preso in seria considerazione per “valutare” la responsabilità: insomma, l’intenzione commendevole, l’azione in qualche modo “necessitata” dalla ricerca del risultato dovrebbe consentire di ponderare la responsabilità discendente dall’azione, attenuando il valore formale del rispetto pedissequo delle norme. Una responsabilità erariale, dunque, potrebbe doversi negare se una gestione discrezionale magari più ampia del “canone” e con costi “ellittici” possa essere riconosciuta come indispensabile e funzionale al risultato per la collettività, oltre che riconosciuto dall’ente come “valore pubblico” nella propria programmazione.
Questo tipo di ricostruzione appare estremamente interessante ed utile. Ma, quanto risulterebbe convincente per la giurisdizione contabile? C’è la sicurezza che l’enunciazione del principio del risultato “parli” alla Corte dei conti, per condurne l’azione, tenendo in tale considerazione appunto il risultato?
Oppure, tale principio non può che riguardare, in particolare, la sola PA, quale vera destinataria della sua enunciazione?
Non può che essere la stazione appaltante stessa, in effetti, la garante principale del conseguimento del “risultato”. Esso va, ovviamente, connesso ad una precedente rilevazione di un fabbisogno, al suo apprezzamento come opportuna necessità della comunità amministrata da soddisfare, elemento, quindi, della programmazione strategica ed operativa e risultato finale della gestione, attuativa del programma.
Del risultato risponde in primo luogo la PA alla comunità amministrata e a se stessa ed, in secondo luogo, l’apparato interno all’organo competente a decidere la programmazione politico-amministrativa e gestionale.
Ma, se così è, appare certo utile la disaggregazione del buon andamento nelle specifiche definitorie dell’articolo 1 del codice, e tuttavia la portata innovativa di questo complesso si conferma quasi del tutto inesistente.
Senza l’enunciazione del principio del risultato si sarebbe potuto ammettere una gestione contraria a buon andamento, tempestività, migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo, legalità, trasparenza, concorrenza, semplicità, celerità, verificabilità, efficienza, efficacia, economicità?
Il principio del risultato, per come enfatizzato, accentua un rischio di eterogenesi dei fini. Sembra, infatti, autorizzare una sua lettura esasperata, tale da legittimare l’idea che il “risultato” possa e debba giustificare qualsiasi scelta, anche comportante la forzatura di tutti o parte degli altri principi “accessori”.
Il che, connesso all’altro principio di complessa comprensione, quello della “fiducia”, può portare le amministrazioni, ma anche gli stessi Rup, a ritenersi in ogni caso nel potere di agire con qualsiasi mezzo, pur di conseguire il risultato.
Le cose non stanno così. Il risultato è comunque in funzione del rispetto di tutti gli altri principi, che non sono esattamente da considerare come accessori, bensì combinati.
La discrezionalità non va intesa come possibilità di decidere tempi, modi, costi, sistemi, in modo arbitrario e pur di raggiungere un risultato purche sia, specie se frainteso come cpacità di “rispettare i tempi”, modo fuorviante di concepire la “tempestività”.
Essa, invece, consiste nella capacità di decidere nei tempi opportuni se e quale intervento realizzare e nella capacità di eseguirlo nei tempi programmati.
La programmazione resta il faro: essa inserisce l’opera, il lavoro, il servizio, entro un mosaico complesso, composto dall’insieme delle azioni finalizzate all’interesse pubblico e consente di destinare risorse adeguate, personale dedicato, cronoprogrammi e metodi di controllo concomitante e successivo, oltre a strumenti di rendicontazione.
Come non è “la gara” il risultato, altrettanto non lo è “la corsa” all’affidamento o l’intervento estemporaneo o comunque condizionato dalla voglia di esercizio di un potere discrezional-arbitrario, da considerare come al di sopra delle responsabilità che pur restano sul fondo di ogni azione pubblica.
Hits: 12